Il referendum turco divide la società e i partiti

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Il referendum turco divide la società e i partiti

 

Intervista al giornalista e videomaker Murat Cinar
in vista della consultazione referendaria del 16 aprile.

 

Il prossimo sedici aprile, il popolo turco sarà chiamato a confermare con un “Evet” (Sì), o a respingere con un “Hayır” (No) la riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento e fortemente voluta dal Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdoğan.

La riforma, che emenderebbe 18 articoli della costituzione, mira a modificare la forma di governo in chiave presidenzialista, riducendo il potere della Grande Assemblea Nazionale (il Parlamento turco) e rafforzando enormemente la figura del Presidente della Repubblica.

I principali cambiamenti riguardano la composizione del Parlamento, il ruolo del Presidente ella Repubblica e i suoi poteri e l’apparato giudiziario. È previsto, infatti, un aumento dei seggi nella Grande Assemblea Nazionale da 550 a 600, la cui elezione avverrebbe ogni 5 anni in concomitanza con le elezioni presidenziali. Decade la figura del Capo del Governo, che coinciderebbe con il Presidente della Repubblica, non più obbligato a interrompere la sua appartenenza ad un partito politico. Inoltre, questo acquisisce il potere di nomina e rimozione di ministri e vicepresidente, oltre alla possibilità di emettere decreti esecutivi.

Per quanto riguarda il potere giudiziario, la riforma riduce il numero dei giudici della Corte costituzionale da 17 a 15 (dei quali 12 nominati dal Parlamento e 3 dal Presidente), rendendo, inoltre, il controllo presidenziale sia sulla Corte che sul Consiglio Superiore dei Giudici e dei Pubblici Ministeri, ancora più stringente.

Murat Cinar è un giornalista e video-maker turco, ma residente in Italia da 16 anni, collaboratore dell’agenzia internazionale “Pressenza” e autore del libro “Una guida per comprendere la storia contemporanea della Turchia” (edizioni Simple, 2016). Lo abbiamo raggiunto al telefono mentre percorreva in bicicletta le vie di Torino per porgli qualche domanda sull’imminente consultazione referendaria.

Mancano meno di due settimane al sedici aprile e dagli ultimi sondaggi sembra che il “No” sia in leggero vantaggio. Qual è la tua percezione a riguardo?

Dipende da quali sondaggi usi come riferimento: molti di questi sondaggi sono prodotti da aziende vicine al governo, l’hanno fatto anche prima delle elezioni nazionali del sette giugno e del primo novembre 2015. Nonostante questo, la mia percezione è che per il momento siamo fifty-fifty. Questo, però, potrebbe cambiare se quella fetta del 10-15% di elettori indecisi prendessero una posizione chiara, oppure andassero semplicemente a votare. Poi, vedremo se ci sarà un colpo di scena all’ultimo momento

Si è parlato molto delle prospettive per il paese in caso di vittoria del “Sì”, si sono analizzati meno i possibili sviluppi che potrebbero seguire una vittoria del “No”. Cosa comporterebbe un esito negativo del referendum per Erdoğan?

Pochi giorni fa, un giornalista ha chiesto al Presidente della Repubblica se pensasse a delle dimissioni in caso di sconfitta. Questa è una domanda che non era mai stata posta fino ad allora. Lui ha risposto dicendo che in ogni caso avrebbe mantenuto la sua carica fino al 2019. Molto probabilmente non si dimetterà, se poi una vittoria del “No” porterà ad un rimpasto di governo o alle dimissioni dell’esecutivo, questo è un altro discorso. Questo è un referendum che si concentra molto sul ruolo del Presidente della Repubblica che, secondo la costituzione turca, è una figura apartitica. Erdoğan ha impostato tutta la campagna referendaria attorno alla sua persona, configurandola come una sua sfida personale. Inoltre, essendo anche il leader dell’AKP, questa è una sfida anche per il suo partito. Erdoğan ha sempre affermato che nel suo cuore c’è solo un partito; con questo cambiamento costituzionale il Presidente della Repubblica sarebbe formalmente legato ad un partito. Per questo motivo il referendum è anche la sfida del partito al governo e, seppur indirettamente, del governo stesso.

Non bisogna dimenticarci poi che siamo davanti a una realtà politica-partitica che non ha quasi mai perso le elezioni in 15 anni. L’unica volta che ha perso, il sette giugno (elezioni del 2015 che hanno visto l’AKP perdere la maggioranza assoluta, costringendo ad indire nuove elezioni per il novembre dello stesso anno, e l’ingresso del partito filo-curdo HDP in parlamento, ndr), abbiamo visto come è diventato il paese. Quello che è successo nel paese è avvenuto anche all’interno dell’AKP: sono state fatte minacce e ritorsioni sia nei confronti dei piccoli iscritti che dei ministri. Una seconda sconfitta potrebbe teoricamente portare alla sfasciatura dell’AKP. Oltretutto, con il tentativo di colpo di stato del quindici luglio, c’è stata una pulizia enorme nei confronti dei seguaci di Fethullah Gülen all’intero di tutti gli apparati statali. All’interno del partito del Presidente, invece, non c’è stata nessuna epurazione, nonostante sia risaputo che vi militano molti di gulenisti. Soltanto un parlamentare dell’AKP, l’ex calciatore del Toro Hakan Şükür, raggiunto da un ordine di arresto, è dovuto scappare in America. Una sconfitta referendaria potrebbe portare il partito allo sfascio, oppure potrebbe costringerlo ad un rinnovamento. L’ultima possibilità, e anche di questo non mi stupirei, è che potrebbero comportarsi come se non fosse successo niente. Attualmente stiamo vivendo sotto lo stato di emergenza e, sebbene sulla carta non sia così, in pratica il paese è amministrato dal Presidente della Repubblica. Erdoğan potrebbe quindi decidere di estendere ad oltranza lo stato di emergenza e continuare a governare a forza di decreti presidenziali. Questo fino a che la Corte Costituzionale non tira fuori i muscoli e decide di fare qualcosa. Purtroppo, abbiamo visto che, a seguito delle maxi-inchieste del 2014, tanti giudici e pubblici ministeri che hanno tentato di opporsi al Presidente sono stati esiliati, zittiti o incarcerati.

Quindi questo referendum ha creato non solo divisioni all’interno della società turca ma anche all’interno dell’AKP.

Assolutamente. Se non apertamente tra i parlamentari, sicuramente tra i giornalisti. Anche tra i giornalisti più vicini al governo ci sono molti dubbiosi, soprattutto sul fatto che questo non sia un referendum per democratizzare il paese, ma per cercare di concentrare il potere su un’unica persona. Testate filo-governative come “Hurriyet”, “Sabah”, “Yeni Safak” o “Yeni Akit” sembrano voler avvertire i loro leader: “State esagerando”.

Dall’altra parte di sicuro c’è dentro al partito un opposizione invisibile. Ora c’è una crociata prima di tutto nei confronti di Gülen, e una, più in generale, nei confronti di tutti gli oppositori del Presidente della Repubblica. Quindi, fare parte della minoranza interna all’AKP è la peggior posizione possibile. Non ti lasciano vivo. Non c’è poi solo l’opposizione gulenista, ci sono anche persone che hanno fortemente creduto nel progetto dell’AKP e ora si sentono deluse; altre che sono entrate all’interno del partito per puro opportunismo e ora si sentono sotto pressione a causa della svolta ultranazionalista e vorrebbero quindi ritornare a toni più pacati. Questa svolta patriottica è evidente se si considera l’appoggio che il governo ha ricevuto dall’MHP, il partito nazionalista di estrema destra.

A questo proposito, l’MHP sembra aver avuto un percorso politico piuttosto schizofrenico, da strenui oppositori di Erdoğan durante la campagna presidenziale del 2014 a promotori del “Sì”, mentre il loro elettorato sembra non essere unanimemente concorde nel sostegno da Erdoğan. A cosa è dovuto questo cambio di rotta?

Dopo questo referendum non ci sarà più un partito come l’MHP. Questo è il suicidio dell’MHP. Non è chiaro perché un uomo così fissato con il ruolo che aveva il suo partito come Devlet Bahçeli (leader del Milliyetçi Hareket Partisi dal 1997, ndr) abbia deciso di suicidarsi così. Le possibilità sono tre: o ha fatto un accordo molto conveniente con Erdoğan, o è stato obbligato a scendere a compromessi con l’AKP. La terza opzione è che il suo nazionalismo sia aumentato esponenzialmente e che quindi questa sia una posizione per salvaguardare lo stato in un momento particolarmente difficile a causa delle minacce interne ed esterne. Un’alleanza tra nazionalisti e un partito conservatore o di centro-destra, non è di certo una novità né per la Turchia né a livello internazionale.

In Turchia il dibattito politico è sempre molto acceso e le posizioni dei partiti sono polarizzate, così come il loro elettorato. In una recente intervista Kılıçdaroğlu, leader del partito kemalista CHP, ha messo in guardia l’elettorato rispetto al fatto che, in caso di vittoria del “Sì” al referendum, tre milioni di siriani acquisirebbero la cittadinanza turca. Per quale motivo il leader di un partito che dovrebbe essere di centro-sinistra ed erede della tradizione repubblicana, fa’ questo tipo di dichiarazioni xenofobe?

Kılıçdaroğlu è un altro motivo per il quale Erdoğan vince in continuazione. Che cosa vuol dire questa uscita? Con quali prove fai certe affermazioni? Sta cercando di giocarsi la carta dei turchi bianchi (li membri della classe media urbana, ndr), terrorizzati dalla presenza dell’immigrato. Non teme di sfruttare la paura di alcune categorie nei confronti degli immigrati pur di ottenere il risultato. Oltretutto, secondo la legge internazionale, se questi immigrati hanno diritto alla cittadinanza, questa non gli può essere negata, indipendentemente dal loro numero o dal fatto che queste persone possano rappresentare un bacino elettorale per l’AKP. Inoltre, questo atteggiamento colpisce quel senso di carità e fraternità che c’è in una parte della società turca, quella parte di società che vede i siriani come nostri vicini musulmani reduci da una guerra. Kılıçdaroğlu dovrebbe rendersi conto che, sebbene in molti si comportino malissimo nei confronti dei siriani, molti altri li sentono molto vicini a loro e per loro non sarebbe un problema se questi ottenessero la cittadinanza. Non siamo molto lontani da discorsi tipo: “Vi ruberanno il lavoro, le donne, la casa”. I soliti discorsi fascistoidi che sentiamo in Italia. Se Erdoğan vincerà questo referendum, sarà anche causa della incompetenza di Kılıçdaroğlu: un kemalista alevita (una branca dell’Islam che conta 10 milioni di seguaci in Turchia, ndr) che non riconosce il genocidio degli aleviti. Pochi giorni fa Erdoğan ha fatto un intervista alla CNN turca sottolineando come lui da tempo abbia chiesto scusa a questa minoranza per il genocidio subito, al contrario del leader dell’opposizione. Come dargli torto? Da ciò si capisce che, ci piaccia o no, Erdoğan è un progetto politico ed economico eccellente, che funziona ottimamente in questo territorio, in questa realtà storica. Kılıçdaroğlu è un progetto fallito, neanche social-democratico. La Turchia avrebbe estremo bisogno di un partito centrista decente perché, dato che non c’è un partito di centro decente, tutto il dibattito si spinge verso la destra estrema. Con un partito del genere, i partiti più radicali si sentirebbero obbligati a cambiare parola d’ordine, a rimettersi in gioco.

Andrea Maioli

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