Riflessioni a freddo sulla manifestazione dell’11 febbraio a Milano

Corteo nazionale per la libertà di Ocalan

 

“Riflessioni a freddo sulla manifestazione dell’11 febbraio a Milano”

di Filippo Urbinati

 

Partecipare alle manifestazioni provoca sempre un’emozione particolare. Ci si sente parte di un progetto più grande, si ha la sensazione di essere meno soli, di condividere le stesse idee e percezioni con altra gente. La manifestazione di Sabato 11 Febbraio a Milano non è stata da meno.

Un corteo numeroso (4-5 mila per gli organizzatori, alcune centinaia per la questura) e colorato di giallo, come la bandiera del kurdistan. Con gli altri manifestanti ci siamo riversati per le vie di Milano da Porta Venezia sino a Largo Cairoli dove si sono tenuti i comizi finali. La comunità curda italiana ha partecipato in massa organizzando autobus da ogni parte d’Italia per unirsi ai compagni italiani e chiedere alcune semplici cose: libertà per Abdullah Ocalan (rinchiuso da anni nell’isola prigione di Imralı); libertà per i leader dell’HDP (partito democratico dei popoli – formazione vicina alla comunità curda i cui segretari sono stati incarcerati); fine della persecuzione del popolo curdo da parte della Turchia.

Mentre vedevo il lungo biscione strisciare per le vie di Milano circondato da curiosi armati di cellulare pensavo alle difficoltà che si incontrano nel trasmettere il messaggio di vicinanza alla popolazione curda e di quali avrebbero potuto essere le reazioni degli spettatori che vedevano sfilare il corteo. Pensavo allo scandalo che avrebbe creato una manifestazione che chiedeva la libertà del leader di una formazione, il PKK, che la Turchia definisce come terrorista. Temevo che la psicosi che si è scatenata all’indomani degli attentati in Europa (Parigi e Berlino in primis) avrebbe offuscato la percezione di molti rendendo più difficile comunicare la vera natura del PKK e la situazione in cui versano oggi i curdi nel sud est della Turchia.

Col procedere della manifestazione però i miei dubbi sono stati fugati. Molto spesso infatti chi si trovava ai margini del corteo vedendo passare il camioncino adibito ai comizi volanti non approvava né dissentiva. Semplicemente non capiva. Qualcuno un po’ più grandicello probabilmente riconosceva il signore con i baffi di cui si chiedeva la liberazione, i più giovani neanche quello. Molti probabilmente hanno sentito parlare del tentativo, fallito, di colpo di stato militare che ha avuto luogo la scorsa estate, pochissimi sono consci del golpe civile che Erdogan e il suo partito stanno portando avanti: uno stato d’emergenza semi-permanente in cui vengono soppresse le libertà fondamentali; gli arresti indiscriminati; l’approvazione della nuova costituzione; il clima di paura in cui si sta sviluppando la campagana referendaria; l’attacco agli organi di stampa; lo stato di guerra in cui vivono le città del sud est del paese (quelle a maggioranza curda). Se del Rojava, nel nord della Siria, un po’ si è parlato (anche grazie ad alcune testimonianze come quella di Zerocalcare o Karim Franceschi) sulla Turchia è calato il silenzio. Il governo di Ankara non vuole scocciature dall’esterno e se questo vuol dire negare l’ingresso ad un’avvocata che da anni si batte per i diritti di quelle popolazioni come Barbara Spinelli, allora così sia.

Si potrebbe discutere per ore sulle ragioni di questo silenzio ma, secondo me, alla fine si possono ridurre a due.

La prima è che siamo troppo impegnati a guardare il nostro ombelico. Assistiamo ad infinite maratone in cui si analizza ogni alzata di sopracciglio di questo o quell’altro esponente politico immaginando come potrebbe proseguire la telenovela, se con un colpo di scena oppure con il lieto fine (ammesso che ce ne sia uno).

La seconda è che in Europa nessun governo ha intenzione di correre il rischio di compromettere in maniera seria il rapporto con la Turchia. La penisola anatolica infatti è uno dei principali corridoi attraverso il quale chi scappa dalla guerra tenta di raggiungere l’Europa per provare a ricostruirsi una vita. La risposta dell’Europa a questa richiesta d’aiuto è semplice – pagare chi controlla il corridoio affinché rimanga chiuso. È stato fatto con la Libia di Gheddafi, probabilmente si farà con la Libia post Gheddafi, si fa con la Turchia. Perché dovremmo rischiare che il corridoio si riapra? Solo perché una popolazione di quel territorio non accetta di vivere sottomessa? Per qualcuno che propone un sistema di governo diverso dal nostro (e quindi sbagliato)? Per uno che proclama di essere vicino ai lavoratori – e per di più coi baffoni come Stalin!? No grazie.

Partecipare alle manifestazioni è molto bello, ti fa sentire parte di qualcosa. La manifestazione di Sabato 11 Febbraio a Milano è servita per far sentire alla comunità curda in Italia che non è sola nella sua battaglia. Forse qualcuno vedendoci passare si è incuriosito e ha cercato di capire per quale ragione fossimo lì. Produrre conoscenza, informare, far conoscere deve essere lo scopo di chi quel pomeriggio si trovava a Milano e anche di chi non è riuscito a venire ma condivide il progetto. Altrimenti rimane solo la piacevole sensazione di essere parte di qualcosa, un piccolo club degli illuminati che non è in grado di dialogare con nessuno. Sfuggire a questo è il modo migliore per aiutare la popolazione curda lottando al loro fianco per un sistema più giusto.

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